Basilio Gavazzeni: “Voto di scambio? Liberi alle urne”. Di seguito la nota integrale.
Il voto di scambio al quale cede per bisogno un certo numero di elettori fa pensare a ciò che Cristoforo Colombo scriveva del rapporto fra gli indigeni del Nuovo Mondo e i suoi spagnoli, creduti dèi: un coccio di scodella o una tazza di vetro rotto equivaleva a 16 matasse di cotone. È il rapporto che intercorre fra i contentini e le promesse di certi candidati e i voti di certi poveracci che, insieme, assicurano una rendita all’occhiuto collettore.
Nella Comedia di Dante Alighieri c’è una formula indimenticabile per definire l’inganno che si cela nel voto di scambio: lunga promessa con l’attender corto (Inf. XXVII 10), cioè prometter molto e mantener poco, cioè non adempiere a promesse generose. Fu il consiglio fraudolente (Ibidem 116) che Guido di Montefeltro diede a Bonifacio VII per ottener la resa dei ribelli capeggiati dai Colonna e arroccati nei castelli di Zagarolo e Palestrina, promettendo in cambio la restituzione delle loro prerogative. Accordo al quale venne meno. Meditino i grandi elettori di un candidato, soprattutto se ha già dato prova di tradimento.
In una convivialità parrocchiale alla quale mi affaccio un istante, stigmatizzo la spregiudicatezza di un corridore elettorale. D’un tratto vengo accerchiato da un gruppo di mezza età, forse sopraggiunto portoghesemente alla festa, che vuole ascoltare quel che ho appena detto al crocchio più in là. Mentre mi ripeto con semplici variazioni lessicali, ho l’impressione che i miei uditori siano schierati con il corridore sopraddetto. Mi sento come Akela, il vecchio lupo del Libro della Giungla quando viene sfidato dai giovani lupi aizzatigli contro da Shere Khan. Ahiloro!, vecchio lupo spelacchiato qual sono, ho ancora zanne dialetticamente ferme. Al mio fervore e alle mie argomentazioni resiste solo un cinquantunenne che sarebbe disposto a discutere fino all’indomani e afferma di esser democristiano. Uscito dalle file del morbido Formigoni? mi verrebbe da chiedergli. Non sa di parlare con uno che da bambino si voltolava nei manifesti della DC – ne ha ancora nelle narici l’odore della stampa – reliquie di quelli che due cognati, giovani di Azione Cattolica nel ’48, uscivano la notte ad attaccar ai muri, rischiando di lasciar la pelle nelle imboscate dei comunisti.
Qualche candidato è convinto che uomini e donne siano comprabili. Si tratterebbe soltanto di capire con quale moneta. I poveri cristi si accontentano di inezie. Sono condotti dal bisogno e dall’abitudine a chiedere. L’uovo lo vogliono subito. Non si illudono che un giorno gli verrà elargita una gallina. Vi sono, poi, coloro che bastano a sé e dovrebbero esser sazi, ma vorrebbero arrotondare assicurandosi un favore. Non è detto che saranno esauditi. Il candidato che li fidelizza, qualora la spuntasse, in futuro ne soffrirà la petulanza. Infine, ecco uomini e donne che ripongono fiducia più nella fornicazione con il politico che nella propria operosità intelligente e conforme a etica. Purtroppo Matera è Matera, non Riad, comunque gli affari sono affari anche qui, quando ci sono di mezzo le elezioni. Non si chieda loro dell’amore per la città, del bene comune, dell’attenzione ai senza volto. Tradiscono chi l’altera sprezzatura del padre geniale, chi le rosse bandiere di un tempo, chi la battaglia che un tempo condusse fieramente. Non gli importa di perdere amici sicuri ai quali, fra l’altro, dovrebbero riconoscenza eterna. Ma Matera è Matera, e gli affari sono affari, viva Ploutos, l’iniqua ricchezza, materanamente u tjrnìs.
Talvolta la politica coinvolge nel protagonismo altri membri della stessa famiglia. Per le elezioni di domenica un medico di grande fama è sceso in campo a sostenere la candidatura promettente del giovane fratello. Di altro candidato ho ricordato la magnifica intraprendenza del padre che, senza dubbio, lo cova. Sono ritornati a galla i volti di una famiglia che nel passato contò ma, picconata da ferree logiche di partito, sembrava perenta. Agli elettori soppesare meriti e coerenza.
Agli elettori liberi da condizionamenti e a coloro che provano la tentazione di sottrarsi alle urne, dedico una poesia indiana del 600 a.C.: Non rinunciare mai a sognare che un giorno potrai volare e gareggiare tra i picchi con le aquile. Ma quando la gente del villaggio ti chiamerà per ricostruire il ponte distrutto dalla piena del torrente, quel giorno vedi di esserci.