Morte di Papa Francesco, intervento di Basilio Gavazzeni. Di seguito la nota integrale.
Inattesa, ma anche prevedibile, la morte di papa Francesco. Rimproverargli di non avere ottemperato al periodo di convalescenza realisticamente prescrittogli dai medici? Aggrappato a un apparente miglioramento, lui ha deciso di onorare fino all’ultimo la sua missione. Morte più coerente non gli poteva toccare, perché seguita al giorno di Pasqua nel quale si era concesso con metodo all’abbraccio della gente accorsa nella sua Piazza.
Un midrash della tradizione ebraica narra che a Mosè, renitente alla morte perché desideroso di passare prima nella Terra Promessa, Dio ricordò che la preghiera: «Fa’ che io passi» era alternativa alla impetrazione: «Perdona loro (agli Israeliti tralignanti)» e che, allora, il liberatore dall’Egitto e il condottiero dell’Esodo accondiscese: «Signore del mondo! Perisca Mosè e mille come lui e non si perda un’unghia di un Israelita!».
A conclusione del testamento, papa Francesco ha scritto: «La sofferenza che si è fatta presente nell’ultima parte della mia vita l’ho offerta al Signore per la pace nel mondo e la fratellanza tra i popoli». Assoggettato allo sgretolamento dell’età e della malattia, il Pontefice, al quale la preghiera e la perorazione per la pace sono state a cuore in maniera ogni giorno più trafiggente, disperando ormai di vederla farsi largo nella martoriata realtà geopolitica, ha conferito così alla sua morte il valore di una offerta sacrificale per il mondo. Si sa: da quando Cristo è morto in croce per tutti – il sì alla propria fine di Mosè, secondo il racconto del midrash, ne è la splendida prefigurazione – la morte di ogni autentico Servo di Dio ha un senso salvifico per gli altri e l’innalzamento risurrezionale non può che esserne il premio.
Questi, del compianto di papa Francesco, sono giorni nei quali in tutte le chiese del mondo si è udito il Vangelo di Giovanni con le parole del Risorto a Maria di Màgdala: «Io salgo dal Padre mio e Padre vostro. Dio mio e Dio vostro». Le moltitudini del Popolo santo di Dio in movimento verso la Basilica di San Pietro sono mosse in sostanza da questa certezza. Esprimono dolore, piangono, ringraziano, cantano, meditano, pregano memori della reiterata domanda di papa Francesco che si pregasse per lui e, certo, già lo invocano come un santo.
Tante cose vengono dette e scritte di lui nella febbrile eccitazione dei media, ma coloro che davvero ne hanno seguito l’esempio e il Magistero hanno il diritto e il dovere di confessare con maggiore franchezza che la poliedrica figura di papa Francesco, caratterizzata dalla doppia fedeltà al cielo e alla terra, è stata un miracolo antropologico cui, senza dubbio, ha contribuito una solida e colorita tempra personale, ma è stata soprattutto la produzione eccezionale di quella grazia che, nella sua essenza, è la comunione assoluta con Cristo. Riconosciamolo, senza cedere per malintesa gentilezza all’accaparrantismo di capziose ermeneutiche mondane: papa Francesco è stato il meglio figlio dell’umanità che Dio ha preparato per testimoniare visibilmente la sua presenza in questa stagione complessa e infelice.
È questo che, con il sensus fidelium, i pellegrini in marcia sulla Via della Conciliazione per andare a rendergli omaggio, dimostrano di aver compreso, esprimendosi nelle forme più variegate della devozione, ma compatti, pur affiancati da numerosi non credenti, in una fede scevra da ogni culto della personalità. È il popolo che papa Francesco continua a evangelizzare anche dal feretro e che – si può presumere – a sua volta, ritornato a casa diventerà evangelizzatore, dopo l’esperienza di questa collettiva gravitazione contemplante.
C’è da essere grati agli operatori della comunicazione sociale in gran daffare attorno a questo lutto storico, ai vaticanisti, ai commentatori e agli osservatori di ogni specie che, pungolati dal mestiere, interpellano, coinvolgono e sono intesi a scovare tutte le chicche possibili. Il presenzialismo di taluni può dar fastidio, irrita qualche voce dissonante dal cordoglio e dalle giuste ponderazioni, ma tant’è, papa Francesco ne sorriderebbe benevolo e paziente.
Gli esibizionisti dell’ora, uomini di Chiesa e laici, rileggano tuttavia i quattro versi di Trilussa sulla lumachella della vanagloria che, compiaciuta di aver striato un obelisco con la sua bava, pensa di aver lasciato un’impronta nella Storia. A quelli, invece, che calano giudizi come colpi di scure e infilano nelle loro interpretazioni boccette di veleno, è il caso di ribadire che papa Francesco si è sempre attenuto con fermezza alla formula giovannea «essere nel mondo» (Gv 17,11) «senza essere del mondo» (Gv 17,14), praticando la già riferita doppia fedeltà prima a Dio e poi al mondo, negandosi egualmente al «progressismo vuoto», inginocchiato davanti al mondo e infedele al Vangelo, ed egualmente, al «conservatorismo annoiato», privo di creatività e insensibile al vento dello Spirito Santo.
Chi ignora questa identità profonda della Chiesa, quando ne parla, è come un sordo che di un concerto registri la gesticolazione del direttore e il fervore operoso degli strumentisti e pretenda di ragionare della musica eseguita. È quel che sta accadendo nel vano strologare chi sarà il successore di papa Francesco, addirittura ipotizzando stoltamente che la partecipazione di un tal Trump alle esequie di sabato condizionerà la scelta dei Cardinali che saranno reclusi in Conclave.
Che ne dici papa Francesco? C’è ancora qualche stenterello che pensa di spiantare il regno di Dio di cui sei gloriosamente parte? Santo Padre santo prega per noi pusilli e peccatori.