Chiuso il gruppo facebook “Mia moglie”, intervento di Simona Bonito (Consigliera di parità Provinciale). Di seguito la nota integrale.
Il caso nazionale del gruppo Facebook “Mia moglie” con 32mila iscritti che condivide foto intime senza consenso.
Gruppo oscurato solo dopo numerose segnalazioni. Occorre una formazione adeguata per contrastare il fenomeno.
Un gruppo pubblico su Facebook, dal titolo apparentemente innocuo “Mia moglie”, ha raccolto fino a oggi oltre 32mila iscritti. Dentro, non battute o racconti di vita familiare, ma immagini intime di donne condivise senza il loro consenso, spesso pubblicate dai mariti o dai compagni stessi. Una pratica che perpetua una delle forme di violenza di genere più subdole, quella digitale che utilizza il corpo delle donne come merce di scambio per ottenere approvazione sociale in rete.
Il caso, esploso sui social e ripreso da diverse denunce e post di indignazione, non è un, purtroppo un episodio isolato. In Italia, secondo i dati della Polizia Postale, le denunce per revenge porn e diffusione illecita di immagini private sono aumentate negli ultimi anni nonostante la legge n. 69 del 2019, conosciuta come Codice Rosso, che ha introdotto il reato di “diffusione illecita di immagini o video sessualmente espliciti senza il consenso delle persone rappresentate. Ma la norma, pur necessaria, non basta a fermare un fenomeno che corre veloce attraverso chat, gruppi chiusie piattaforme pubbliche.
La responsabilità non ricade soltanto su chi pubblica le immagini. Ogni like, ogni commento, ogni condivisione amplifica la violenza. È la logica della “platea digitale”: migliaia di utenti che, con la loro passività e superficialità, contribuiscono a consolidare l’abuso. Le vittime, intanto, ne pagano le conseguenze in solitudine. La convinzione che l’intimità condivisa all’interno di una relazione possa diventare “materiale” da esibire pubblicamente sopravvive a ogni campagna di sensibilizzazione. È il riflesso di una società in cui il corpo delle donne resta terreno di controllo, esposizione e giudizio. La tecnologia non inventa la violenza, ma la moltiplica attraverso la velocità di condivisione.
Le piattaforme digitali hanno responsabilità dirette. Non è più sufficiente una policy scritta: servono procedure di rimozione rapide. La possibilità di cancellare contenuti d’odio o di disinformazione esiste, ma viene applicata con criteri spesso incerti. Nel frattempo, le immagini circolano, si salvano, si replicano altrove.
Ma lo strumento di contrasto principale resta sempre e comunque quello educativo. Troppo spesso si pensa che l’alfabetizzazione digitale debba riguardare solo ragazzi e ragazze. In realtà, sono proprio gli adulti a popolare questi spazi, a perpetuare stereotipi, a sottovalutare le conseguenze delle proprie azioni online. Occorre un percorso di educazione civica digitale che riguardi l’intera comunità: scuole, famiglie, associazioni, luoghi di lavoro. Bisogna spiegare con chiarezza che la condivisione senza consenso è violenza, che dietro ogni immagine c’è una persona reale, che i danni non si cancellano, permangono.
Le vittime hanno strumenti a disposizione, ma spesso non li conoscono. È importante sapere che non si è sole: la Polizia Postale raccoglie denunce anche online, il numero 1522 offre supporto immediato e i centri antiviolenza forniscono assistenza legale e psicologica. Il caso del gruppo “Mia moglie” mostra come il digitale sia oggi uno dei terreni più insidiosi della violenza di genere. Se non si interviene con decisione su più livelli – legale, tecnologico, educativo e sociale – rischiamo di trovarci davanti a nuove piattaforme e nuovi gruppi, con nuove vittime esposte e umiliate. La domanda che resta aperta non è più se questi fenomeni esistano, ma fino a quando la società sarà disposta a tollerarli.

