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Nietzsche tra Wagner e Bizet con D’Annunzio nel volume di Laura Abbatino

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Nietzsche tra Wagner e Bizet
con D’Annunzio


Scritto in una lingua italiana sempre ben curata per chiarezza e proprietà, è uscito da qualche mese, dalle mani di una giovane – Laura Abbatino – un bel volume sui rapporti tra Nietzsche, Wagner e Bizet (Nietzsche tra Wagner e Bizet, Lecce, Pensa multimedia, 2008, pp.216, €. 16,50). Vale la pena ricordare che Laura Abbatino è musicista e studiosa di musica. Perciò i rapporti fra i tre grandi intellettuali europei sono analizzati di preferenza con l’occhio alla musica e alle scelte che ognuno, in tale ambito, fece. E’ vero, però, che Wagner, attraverso la musica, si poneva non solo grossi problemi di estetica e riforma del dramma musicale e del teatro, ma anche l’obiettivo di costruire e celebrare una grande Germania, pura di razza e di sentimenti. Era lo stesso obiettivo che, almeno per un certo periodo, si propose anche Nietzsche. Nel frattempo interveniva, nel 1870, la guerra franco-prussiana, che, combattuta per l’egemonia europea, vide la sconfitta della Francia, l’avvento del naturalismo francese e una serie di contraccolpi, che avrebbero portato ad ulteriori rotture tra la Francia e la Germania, fino ad arrivare ai due conflitti mondiali.
 Laura Abbatino, naturalmente, è consapevole che, attraverso la musica e l’amicizia nella musica, in realtà si ponevano vasti problemi storici e filosofici. Nietzsche – ci tiene a precisare -, filosofo, fu egli stesso grande intenditore di musica e persino compositore. Perciò, intelligentemente, non manca di fare incursioni nel pensiero filosofico di Nietzsche e dello stesso Wagner, lettore di Schopenhauer (1788-1860), che in Schopenhauer incontrò lo stesso Nietzsche. In effetti, tanto Nietzsche quanto Wagner accettarono sempre il principio del mondo come rappresentazione e come volontà, sia pure con sviluppi diversi.
Schopenhauer, travolto dal suo pessimismo, giungeva ad una sorta di rinunzia della volontà o <<noluntas>>, che lo faceva approdare sulle sponde della filosofia indiana e del Nirvana. Proprio tale conclusione, però, non era accettata né da Wagner né da Nietzsche. Tutto, perciò, lasciava supporre che i due, incontratisi in Schopenhauer, continuassero insieme la loro strada. Nietzsche era nato nel 1844. Quando conobbe Wagner era molto giovane, soprattutto rispetto a Wagner, che era nato nel 1813. Perciò, quando i due fecero la loro prima conoscenza, cioè nel 1868, Nietzsche aveva appena ventiquattro anni, mentre cinquantasei ne aveva Wagner. E’ facile supporre una certa condizione di inferiorità e di grande rispetto di Nietzsche nei confronti di un uomo all’apice della sua gloria. Nietzsche, del resto, era ancora poco conosciuto come filosofo, essendo noto, più che altro, come professore di filologia classica. Poi avvenne che, nel 1870, scoppiò la grande guerra franco-prussiana. Nietzsche si arruolò volontario, pensando di partecipare al grande trionfo della Germania. Il trionfo, in verità, ci fu; ma, a parte la tragedia dei  molti morti sull’uno e sull’altro fronte, a parte le tragiche conseguenze nei decenni futuri, avvenne che Nietzsche, ammalatosi, partecipò poco alle vicende belliche. Le poté solo osservare nella loro dimensione apocalittica. Cosa che, in certo qual modo, sembra ricordare quanto sarebbe accaduto al D’Annunzio, che, ferito ad un occhio dopo aver tanto insistito per essere arruolato, precipitò nel <<notturno>>.
 Forse quella esperienza a metà e la visione del vero volto della guerra, vista al di qua di ogni infatuazione nazionalistica, indussero Nietzsche a percorrere altri lidi. Dovette rendersi conto che la vittoria della Germania si risolveva in un fatto di facciata e di immagine. I morti dovettero farlo riflettere; dovette anche riflettere sulle conseguenze che la guerra aveva avuto per la Francia, su cui si innestava la amara produzione novellistica di Guy de Maupassant (1850-1893), combattente nella stessa guerra, sia pure sul fronte opposto. Cominciò allora a muoversi per altri orizzonti e ad allontanarsi da Wagner, il quale, nel frattempo, sempre invaghito di una grande Germania, abbracciava il cristianesimo, le dottrine antiebraiche e, quindi, il razzismo. Nietzsche non riusciva più a seguirlo su queste strade. Anche lui partiva da una visione pessimistica e infelice della società del suo tempo; ma non sperò più nella funzione salvifica del cristianesimo e di antichi valori borghesi. Era necessario attingere direttamente alla radice dell’uomo e riscoprire o ritrovare quello slancio vitale, o furore <<bacchico>>, che facesse superare la rinuncia alla vita che era di Schopenhauer. Wagner sperava negli eroi, in nuovi eroi protagonisti della storia; Nietzsche pensava all’uomo in genere e, quindi, anche all’uomo comune. Su questo terreno, avvenuta la rottura con Wagner nel 1876,  finì con l’incontrarsi con un compositore francese, Bizet (1838-1875), cioè con un nemico della Germania e con le esigenze espresse da una eroina di umile estrazione, qual era Carmen, celebrata in una novella scritta nel 1845 da Mérimée (1803-1870) e musicata e portata in teatro nel 1875 proprio da Bizet. Nietzsche ne prese conoscenza durante la rappresentazione che dell’opera avvenne a Genova, nel novembre del 1881.
 Gli sembrò di aver trovato quello che aveva cercato in Wagner e non aveva trovato. Carmen, la protagonista, era una zingara, di poca o nessuna cultura, che esprimeva, però, l’energia primaria che le classi medie e alte avevano perduto, rose, come avrebbe detto Carducci, dal “tarlo” del cervello. Ribelle a qualunque forma di imposizione, Carmen impersonava il rifiuto delle regole e delle convenzioni dominanti. Nietzsche, per questa via, e contrariamente a quello che di lui si sarebbe pensato dopo, attingeva direttamente alle fonti della vita e, quindi, del popolo, fortunatamente rimasto al di qua della cosiddetta civiltà, che tanta corruzione e tanta fiacchezza aveva diffuso. Se le eroine e gli eroi di Wagner si chiamavano Parsifal, Isotta, Sigfrido e Tristano, la nuova eroina di Nietzsche era Carmen, capace di affrontare la vita con <<entusiasmòs>> (nel significato greco), cioè col fuoco dentro, fino al sacrificio della sua stessa vita.
 Forse, nella analisi di Laura Abbatino, mancano, nella forma più esplicita, questi passaggi e puntualizzazioni, a nostro parere essenziali e, in certo senso, nuovi e diversi, rispetto al modo di collocarsi della critica dominante. E’ in tale contesto che, sempre a nostro a parere, si inserisce anche la posizione deviante e deviata del D’Annunzio rispetto a Nietzsche, letto, nel 1893, attraverso Wagner. D’Annunzio in quell’anno, cioè nel 1893, commemorava il decennale della scomparsa di Wagner, morto, per l’appunto, nel 1883 in Venezia, città in fase di decomposizione. Nietzsche era ancora vivo, benché ormai non più in possesso di tutte le sue facoltà mentali. Sarebbe morto nel 1900. D’Annunzio commemorò Wagner sulla <<Tribuna>> attraverso tre articoli usciti il 23 luglio, il 3 e il 9 agosto. Ne trasse la convinzione che Nietzsche, rimproverando a Wagner la condizione di artista decadente, lo superasse nella teorizzazione di un mondo diviso tra schiavi ed eroi, tra nobili e servi. Non era proprio così. D’Annunzio pensò di aver trovato in Nietzsche la figura del superuomo, che si sottrae a tutte le leggi della società e degli esseri comuni e rifà, lui solo, la storia. Invece è vero che Nietzsche, come è stato detto più giustamente, aspirava  ad andare <<oltre>> l’uomo, a partire dalla condizione reale e di tutti. Era quanto dire che, a suo modo di vedere, era necessario che l’umanità intera tornasse a sentire, entro di sé, il bisogno di superare la propria condizione e il proprio <<status>> di immobilità o di malattia, in una sorta di proiezione <<ad infinitum>>.
Quel che è singolare, invece, è il fatto che D’Annunzio facesse esattamente il cammino contrario a quello di Nietzsche, che, partito da Wagner e dal canto della malattia, era approdato, attraverso Carmen, alla natura, selvaggia forse, ma autentica e vera, e, quindi, ad una sorta di visione democratica della vita. D’Annunzio, come è noto, era partito dall’Abruzzo primitivo, dalla Pescara  e dalla terra vergine, per approdare alle “vergini delle rocce” e ai suoi eroi malati e sbagliati, quali Giorgio Aurispa e Claudio Cantelmo. E’ però importante e significativo che, già nel 1904, egli trovasse la figlia di Iorio, che altro non era se non una sorta di Carmen abruzzese. Non c’è bisogno di precisare che siffatto <<ritorno> altro non significava che, alla radice dell’uno e dell’altro atteggiamento, tra superuomini e primitivi, era sempre lo stesso D’Annunzio, che, non diversamente da Nietzsche e dal suo passaggio tra Wagner e Bizet, esprimeva sempre e solo il malcontento per il presente e il desiderio di vivere e di bere fino in fondo alla coppa della vita, che, identificato con l’<<amor fati>>, altro non è se non l’<<amor naturae>>. La qual cosa induceva ad andare alle scaturigini della vita stessa, esattamente come facevano i <<suoi>> pastori che, a settembre, prima di partire, rinnovavano “verga d’avellano” e bevevano profondamente ai “fonti alpestri”, perché “sapor d’acqua natia” rimanesse nei loro cuori. Solo allora avveniva il passaggio verso nuovi <<saltus>>, cioè – secondo il doppio significato latino – verso nuovi pascoli e nuove balze.
 

Giovanni Caserta