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Coronavirus, l’esperienza del medico salandrese Angela Grassi all’ospedale Policlinico di Bari

Il medico salandrese Angela Grassi che lavora nel reparto rianimazione Brienza dell’ospedale Policlinico di Bari racconta in una nota l’esperienza professionale che sta vivendo durante questo periodo di emergenza sanitaria provocata dal Coronavirus. Di seguito la nota integrale.

Un cerotto. Il nome sul cerotto. Sotto, un camice sterile, sotto ancora una tuta impermeabile, due/tre paia di guanti. Per il capo mascherina, occhiali e scudo. Coperti da capo a piedi, solo gli occhi sono visibili, ed è forse la cosa più importante. Non ci riconosciamo di spalle, talvolta nemmeno di fronte, anche se io sono fortunata: lavoro con una squadra di medici, infermieri e ausiliari che conosco da molti mesi ormai, mi basta guardarli di sottecchi per capire chi sono. Ma i pazienti no, per quei pochi pazienti svegli in terapia intensiva è ancor più difficile capire chi sta loro di fronte. E allora l’idea del cerotto, l’idea venuta l’altro giorno parlando con un paziente in rianimazione, rendendomi conto di cosa possa significare per lui stare in un ambiente del genere: da solo, pieno di rumori, in uno stanzone enorme ormai purtroppo pieno di altre persone, se si gira a destra e a sinistra vede la maggior parte delle persone sedate, con un tubo in gola e mille fili che collegano il suo corpo a monitor e pompe di farmaci. Mi sono fermata a parlare un po’ di più con lui, ho provato a mettermi nei suoi panni: le uniche persone con cui può cercare di parlare siamo noi medici e infermieri, ma siamo tutti scafandrati, affaccendati, accaldati, assetati, impacciati nei movimenti, nervosi, spaventati, irriconoscibili per lui. Mi chiede “dottoressa come ti chiami?”, gli ho risposto, abbiamo parlato, ho dovuto bucarlo tre volte per prendergli due vene e un’arteria. Ciononostante mi ha sempre ringraziata, non ci sono abituata. Poi mi sono allontanata e quando sono ritornata per controllare che fosse tutto a posto, non riusciva a capire se fossi io o un’altra persona, allora sorridendo ho preso il cerotto e ho scritto il mio nome su, “ecco, se hai bisogno ancora di me, e mi vedi da lontano, sai che sono io, puoi chiamarmi per nome e arrivo”. Mi ha sorriso e ringraziato mille volte, e così ha fatto, chiamandomi da lontano se aveva bisogno. Sono stata contenta che, almeno per la durata del mio turno, avesse un punto di riferimento.
Finora non ho mai scritto nulla, pubblicato nulla, eppure noi lavoriamo da giorni, ma oggi volevo riportare questa esperienza per dire a tutti (oltre che di restare a casa, per evitare di trovare voi o i vostri cari al posto del signore), di restare umani. Non accusate chi ha contratto il virus, non lo voleva. Non accusate chi, in corsia o nei comuni o nelle associazioni di volontariato, cerca solo di aiutarvi.
Restate Umani, restiamo Umani. Questo davvero il virus non può togliercelo.
#behuman
❤️